Mercoledì delle Ceneri

“Cenere in testa e acqua sui piedi.
Tra questi due riti si snoda la strada della Quaresima. Apparentemente, poco meno di due metri. Ma, in verità, molto lunga e faticosa. Perché si tratta di partire dalla propria testa per arrivare ai piedi degli altri. A percorrerla non bastano i quaranta giorni che vanno dal mercoledì delle ceneri al giovedì santo. Occorre tutta una vita, di cui il tempo quaresimale vuole essere la riduzione in scala.

Pentimento e servizio. Sono le grandi prediche che la chiesa affida alla cenere e all’acqua, più che alle parole. Non c’è credente che non venga sedotto dal fascino di queste due prediche. Le altre, quelle fatte dai pulpiti, forse si dimenticano subito. Queste, invece, no: perché espresse con i simboli che parlano un “linguaggio a lunga conservazione”.

È difficile, per esempio, sottrarsi all’urto di quella cenere. Benché leggerissima, scende sul capo con la violenza della grandine. E trasforma in un’autentica martellata quel richiamo all’unica cosa che conta: “Convertiti e credi al Vangelo”.

Peccato che non tutti conoscono la rubrica del messale secondo cui le ceneri debbono essere ricavate dai rami d’ulivo benedetti nell’ultima domenica delle palme. Se no, le allusioni all’impegno per la pace, all’accoglienza del Cristo, al riconoscimento della sua unica signoria, alla speranza di ingressi definitivi nella Gerusalemme del cielo, diverrebbero itinerari ben più concreti di un cammino di conversione. Quello “shampoo alla cenere”, comunque, rimane impresso per sempre: ben oltre il tempo in cui, tra i capelli soffici, ti ritrovi detriti terrosi che il mattino seguente, sparsi sul guanciale, fanno pensare per un attimo alle squame già cadute dalle croste del nostro peccato. Così pure rimane indelebile per sempre quel tintinnare dell’acqua nel catino.

È la predica più antica che ognuno di noi ricordi. Da bambini l’abbiamo “udita con gli occhi”, pieni di stupore, dopo aver sgomitato tra cento fianchi, per passare in prima fila e spiare da vicino le emozioni della gente. Una predica, quella del giovedì santo, costituita con dodici identiche frasi: ma senza monotonia. Ricca di tenerezze, benché articolata su un prevedibile copione. Priva di retorica, pur nel ripetersi di passaggi scontati: l’offertorio di un piede, il levarsi di una brocca, il frullare di un asciugatoio, il sigillo di un bacio.

Una predica strana. Perché, a pronunciarla senza parole, genuflesso davanti a dodici simboli della povertà umana, è un uomo che la mente ricorda in ginocchio solo davanti alle ostie consacrate.
Miraggio o dissolvenza? Abbaglio provocato dal sonno, o simbolo per chi veglia nell’attesa di Cristo? “Una tantum” per la sera dei paradossi, o prontuario plastico per le nostre scelte quotidiane?

Potenza evocatrice dei segni!

Intraprendiamo, allora, il viaggio quaresimale, sospeso tra cenere e acqua.

La cenere ci bruci sul capo, come fosse appena uscita dal cratere di un vulcano. Per spegnerne l’ardore, mettiamoci alla ricerca dell’acqua da versare… sui piedi degli altri.

Pentimento e servizio. Binari obbligati su cui deve scivolare il nostro ritorno a casa.
Cenere e acqua. Ingredienti primordiali del bucato di un tempo. Ma, soprattutto, simboli di una conversione completa, che vuole afferrarci finalmente dalla testa ai piedi.
Un grande augurio.”

don Tonino Bello

PRESENZA REALE di Don Manuel Belli

Caro cardo salutis e non solo della salvezza, anche della verità.
Non solo la teologia può servirsi degli strumenti della ricerca filosofica, anche la filosofia può ricevere impulso dai temi della teologia, in particolare a proposito del corpo, inteso come corpo vivente e vissuto “… il lavoro fenomenologico non smette di essere fecondo nel tematizzare l’umano come chi nel mondo non può vivere eludendo la questione del senso. L’ermeneutica dei vissuti corporei risulta essere un altro luogo filosofico da presidiare. Cristo lega ad un rito la narrazione della propria corporeità, tanto che corpo e rito non possono più essere disgiunti. Ma ciò che il corpo/rito di Cristo esprime in un grado particolarmente elevato di solennità non è estraneo ai vissuti ordinari di corporeità. Non esistono corpi che non celebrino riti. I corpi non sono mai inerti e non sono semplici esposizioni a ciò che li trascende. Il corpo, punto zero di ogni passività, è anche il luogo di ogni attività, soglia di accoglienza e azione, di ascolto e presa di posizione, di reazione e azione. Il corpo è sempre attore sul palco del mondo: ogni movimento muscolare, ogni impressione e ogni apprensione costituiscono la perenne messa in scena di un senso a cui non possiamo mai sottrarci. Il corpo non finisce con la pelle: i confini della corporeità si perdono nell’intreccio con altri corpi, con gli oggetti, con gli spazi.
La cena di Gesù, nei testi che la raccontano e nei riti che la esprimono, costituisce un perenne invito a tutti coloro che pensano (e “filosofia” è il nome del pensiero che si fa rigoroso) a non smarrire la complessità della corporeità” (pagina finale di Presenza reale” ).

Nel pomeriggio ho finito di leggere il saggio di Don Manuel Belli iniziato diverso tempo fa e interrotto per altre letture più lievi, per impegni, stanchezza, pigrizia… (quante scuse trova la pigrizia! Sembrano ragioni, a volte), ma mai abbandonato, perché il tema mi appassiona e soprattutto per questo motivo, per non far finta di leggerlo senza capirci un tubo (non che ora ci abbia capito tutto!), aspettavo un momento di calma e lucidità. Se aspetti il momento perfetto non studi non fai mai nulla… stasera, cercando un po’ di notizie su questo studio ricco e tosto, accurato, ricco di fonti, citazioni, rimandi… ho scoperto di aver letto e amato un libro “eretico”! No, non lo ha dichiarato eretico il Papa, lo dicono alcuni blog ‘ultracattolici’.. a me sembra un lavoro molto interessante e pieno di amore per Gesù e l’Eucaristia oltre che di legittima curiosità intellettuale e ricerca storica. Provo a presentarlo al volo.

Manuel BelliPresenza reale. Filosofia e teologia di fronte all’eucaristia, Brescia, Queriniana, 2022
Cinque capitoli densi e nutrienti:

1. Le ragioni di una ricerca e le opzioni metodologiche
2. Pascasio e Ratramno: i confini del vero e del reale
3. Lanfranco e Berengario: l’eucaristia alla prova della retorica
4. Tommaso d’Aquino: metafisica ed eucaristia
5. L’eucaristia dà da pensare? Scenari fenomenologici

Mi ero un po’ incartata con Berengario, si sono risvegliati ricordi di anni lontani, in cui ero ‘lontana’…

ne avevo accennato in un commento su facebook quando mi ero comprata il libro, dopo aver ascoltato diversi commenti al Vangelo della Domenica su “Scherzi da prete”, il canale YouTube di Don Manuel Belli e le registrazioni di alcune sue dirette su temi per me caldi: fede, ragione, rapporti tra fede e ragione, riti, chiesa, Chiesa, confessione…

Don Fulvio Capitani con i due libri di Manuel Belli

Don Fulvio aveva ricevuto sia questo che un altro libro di Manuel Belli, “La trama della fede” e…

ricordavo i miei esami di storia della filosofia medievale, con le controversie eucaristiche e altre dispute, i confronti tra Lanfranco e Berengario, Pascasio e Ratramno, fino alla vetta di rigore e raffinatezza dell’Aquinate (non è stato Tommaso il primo a parlare di transustanziazione, ma, per offrire i migliori strumenti ermeneutici possibili alla questione della comprensione dell’Eucaristia, ha usato il rigore aristotelico fino all’estremo delle sue possibilità, fino a sovvertire la metafisica).

Meno noti e quindi particolarmente affascinanti per me gli scenari fenomenologici, soprattutto nel sorprendente e fecondo intreccio con la teologia dei sacramenti. Dal capitolo su Tommaso d’Aquino la lettura è diventata un volo… il capitolo finale “L’eucaristia dà da pensare? Scenari fenomenologici” mi ha incollata alla sedia. GRAZIE


“…la consegna reciproca del corpo costituisce la semantica fondamentale dell’amore sponsale. Paolo stesso stabilisce un nesso tra l’amore sponsale e quello di Cristo per la sua chiesa (Ef7). Colui che si rende presente nell’eucaristia non è semplicemente l’anonimo corpo della divinità, ma il vertice di donazione amorosa a cui sia possibile giungere. Il pane spezzato solo metafisicamente è un accidente: in realtà c’è una evidente consonanza tra l’oblatività di Cristo e la simbolicità di un pane spezzato e condiviso. Non si tratta di negare la presenza di Cristo e nemmeno di esaltare una dimensione simbolica a discapito di quella realista: un corpo è sempre vissuto. E il vissuto di Cristo è indelebilmente legato all’amore. Ghislain Lafont sostiene che «tutto il realismo dell’eucaristia, dall’epoca barocca fino ai nostri giorni, si è incentrato non sull’atto del mangiare, ma sulla presenza reale di Cristo in ciò che viene mangiato». Il problema non è affermare o negare il realismo della presenza, ma aprire il problema al realismo amoroso del dono eucaristico. (…)
Il corpo non è inerte (…) Il pane spezzato e il corpo crocifisso sono l’uno lo specchio dell’altro, appartenenti all’unico movimento corporeo dove l’amore non è meno reale della presenza.”

Nato per sollevare i piccoli e rovesciare i potenti

“… Là dove la ragione si scandalizza, dove la nostra natura si rivolta, dove la nostra pietà di uomini religiosi si tiene pavidamente a distanza, proprio là Dio ama essere. Là egli confonde la ragione dei sapienti e provoca la nostra natura e la nostra religiosità. Là egli vuole essere, e nessuno glielo può impedire. Solo gli umili gli prestano fede e si rallegrano che Dio sia tanto libero e tanto sovrano da fare miracoli là dove l’uomo dispera, da compiere meraviglie là dove l’uomo è piccolo e insignificante; sì, questo è il miracolo dei miracoli; che Dio ami ciò che è piccolo.
“Dio ha guardato la piccolezza della sua serva”. Dio nella piccolezza. Questa la parola rivoluzionaria, appassionata dell’Avvento. Ecco Maria, anzitutto, la moglie del carpentiere, sconosciuta, insignificante agli occhi degli uomini: proprio nella sua insignificanza, nella sua piccolezza agli occhi degli uomini, viene fatta oggetto dello sguardo e dell’elezione di Dio, per essere madre del Salvatore del Mondo; non in virtù di qualche suo pregio umano, né per il suo pur grande timor di Dio; non a motivo della sua umiltà e neppure di una qualsivoglia sua virtù, ma solo ed esclusivamente perché la condiscendente volontà di Dio ama, elegge e fa grande ciò che è basso, insignificante e piccolo. Maria, la donna austera e timorata di Dio, che vive nell’Antico Testamento e spera nel suo Redentore, l’umile donna di un carpentiere: la madre di Dio!
Ed ecco Cristo stesso, Cristo nella mangiatoia…”

Dio non si vergogna della piccolezza dell’uomo, vi si coinvolge totalmente: sceglie un essere umano, lo fa suo strumento, e compie il miracolo là dove meno lo si attende. Dio è vicino a ciò che è piccolo, ama ciò che è perduto, reietto, insignificante, ciò che è debole, spezzato. Quando gli uomini dicono “perduto” egli dice “trovato”, quando dicono “condannato” egli dice “salvato”, quando gli uomini dicono “no” egli dice “si”. Quando giungiamo nella nostra vita al punto di vergognarci davanti a noi stessi e a Dio, quando arriviamo a pensare che è Dio stesso a vergognarsi di noi, quando sentiamo Dio lontano come mai nella nostra vita, ebbene, proprio allora Dio ci è vicino come non mai; allora vuole irrompere nella nostra vita, allora ci fa percepire in modo tangibile il suo farsi vicino, così che possiamo comprendere il miracolo del suo amore, della sua prossimità, della sua grazia.
“Tutte le generazioni mi chiameranno beata”, esulta Maria. Che significa chiamare beata Maria, l’umile serva? Non può voler dire altro che adorare nello stupore le grandi cose che Dio ha compiuto in lei; scoprire in lei che Dio volge il suo sguardo a ciò che è piccolo e lo innalza, che il venire di Dio in questo mondo non cerca le vette ma gli abissi, che la gloria e l’onnipotenza di Dio consistono nel far grande ciò che è piccolo. Chiamare beata Maria non significa edificarle altari, ma insieme con lei adorare il Dio che guarda e sceglie ciò che è basso, che fa cose grandi ed il cui Nome è santo. Chiamare beata Maria significa sapere con lei che la misericordia di Dio “di generazione in generazione ricopre coloro che lo temono”, che con stupore fissano lo sguardo e la mente sulle sue vie, che lasciano soffiare il suo Spirito dove vuole, che gli obbediscono e con umile sottomissione dicono insieme con Maria “Avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38).
Quando Dio sceglie Maria come suo strumento, quando Dio stesso decide di venire in questo mondo nella grotta di Betlemme, non si tratta di un episodio idilliaco occorso ad una famiglia, ma è l’inizio di un rovesciamento totale, di un nuovo ordine di tutte le cose di questa terra. E se vogliamo prendere parte a questo evento dell’Avvento e del Natale, non possiamo semplicemente starcene lì a fare da spettatori, come fossimo a teatro, e rallegrarci di tante belle scenette, ma siamo trascinati con forza anche noi dentro questa azione, in questo mutamento di tutte le cose, siamo chiamati ad essere protagonisti anche noi su questo palcoscenico. Qui lo spettatore è sempre un attore nel dramma che si rappresenta, e noi non possiamo sottrarci.
Cosa avviene quando Maria diventa la madre di Dio, quando Dio viene nel mondo nell’umiltà della grotta di Betlemme? Il giudizio del mondo e la redenzione del mondo: ecco ciò che avviene. Ed è Gesù colui che giace nella mangiatoia, colui che opera il giudizio e la redenzione del mondo: egli rigetta i grandi ed i potenti, rovescia i troni dei dittatori, umilia gli orgogliosi; il suo braccio agisce con potenza contro tutti coloro che stanno in alto e sono forti, e invece solleva ciò che è basso, e lo fa grande e magnifico nella sua misericordia. Non possiamo perciò accostarci alla sua mangiatoia come ci accosteremmo alla culla di qualsiasi altro bambino: se qualcuno vuole andare alla sua mangiatoia, ecco, in lui avviene qualcosa, egli può solo andarsene di là giudicato o redento; non può che crollare o sperimentare su di sé la misericordia di Dio.

da Il Magnificat di Dietrich Bonhoeffer

Vigilia di Natale con la febbre, non alta, ma in tempo di Covid sopra 37,5 è roba da non andare in giro… e in attesa dell’esito del tampone di fine quarantena per Viola, piccola mia, fatto ieri in circostanze da film… dovrò rinunciare alla messa, forse, ma in casa – con accanto lo sposo e la nostra bambina, presenti e vivi affetti importanti, anche se le assenze pesano più che mai – posso sempre leggere, pregare, amare, sperimentare nelle pieghe della mia debolezza l’eccesso di tenerezza di un Dio che per noi si è fatto bambino e pane…

Buon Natale a tutti

Il danno

Ho subito un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere.

Per anni ho conosciuto solo questa citazione dal libro che mi sono decisa a leggere dopo i libri di Dehò. Cambiando decisamente genere, ma sempre di vita si parla.

Cercate di trattenerla e si ribellerà. È impossibile spezzare Anna. È già spezzata, vede? Deve sentirsi libera. Così tornerà sempre…

Ero attratta dalla frase su chi sa di poter sopravvivere e forse cercavo risonanze di mie fratture e una specie di catarsi. No, non mi ci rispecchio che nella minima misura in cui tutto quel che è umano in qualche modo ci tocca tutti. Evidentemente sono fragile, ma non frantumata, non fratta, non spezzata, perché so di potermi ancora spezzare. Ma torniamo al libro. Mi è piaciuto? Sì, mi ha distratta da diversi pensieri pesanti, si è lasciato divorare in poche ore, avvincente e, stranamente, non tanto inquietante anche se parecchio inquieti sono i personaggi e decisamente morboso il rapporto tra i protagonisti. Lo rileggerei? No, una volta basta, ma sono contenta di averlo letto, perché detesto avere in testa una frase famosa tratta da un libro senza aver letto il libro. E poi perché mi ha fatto apprezzare le mie debolezze, la mia vulnerabilità, il non aver chiuso il cuore all’amore che dona molto e molto ferisce, ma non genera il vuoto e la corsa all’abisso, veri protagonisti della storia.

Per quelli di voi che ne dubitano: questa è una storia d’amore.

No, non è una storia d’amore. Forse una storia sulla devastazione provocata dall’assenza di amore. C’è desiderio sessuale, dipendenza psicologica, ossessione erotica, sottomissione e fame di controllo, sete di sensazioni, ma l’amore? L’unico momento in cui il protagonista maschile (e voce narrante) compie, secondo me, un vero gesto d’amore è verso la fine, dopo la tragedia annunciata sin dalle prime pagine, nei confronti della moglie tradita e mai amata nel senso della passione o dell’amore romantico, quando le sottrae la collera, “era scevra del furore, del rancore e del senso di colpa degli incolpevoli”, per lasciarle solo il dolore, cui comunque lei saprà sopravvivere.

Sette passi di amore

Come ha fatto Maria a reggere tutto quel dolore? Come ha fatto a sopravvivere al tradimento, alla violenza, alle accuse infami, alla croce, alla morte, alla sepoltura del figlio? Come ha fatto Maria a tornare in quella stanza del piano superiore insieme agli Undici? Dove ha trovato la forza? Maria ha imparato, un giorno alla volta, non senza dubbi e fatiche: questa è la sua storia e, forse anche la storia di ognuno. Perché si può imparare a vivere solo respirando tutti i respiri che la storia ci consegna, tutti, sempre, un giorno alla volta…

Sabato benedetto dalla pioggia al mattino, passi non solo con i piedi, incontri e pacificazioni e da un pomeriggio di silenzio e lettura. Iniziato a metà pomeriggio, finito di gustare stasera, sotto un cielo pulito ricamato di stelle, appena addormentata la bimba, il libro di Alessandro Dehò mi ha fasciata e accompagnata. Sette giorni come una nuova Genesi, sette passi per imparare a essere Annunciazione di gioia, che non è felicità, ma senso.

Imparare a vivere e a lasciarsi illuminare, senza fuggire lo sguardo, la comunione, l’accoglienza. Imparare a fidarsi del cammino, credere che il deserto può fiorire.

Diventare casa. Per l’umanità che cammina e che si perde. Diventare casa accogliente, spazio non giudicante, abbraccio perdonante.

GRAZIE

LA PAROLA LIBERA

Se vuoi Davide, non devi fermarti ai primi figli di Iesse, pur belli nelle loro apparenze

Spesso, prima di partire per una vacanza, mi porto almeno tre o quattro libri in valigia e spesso li riporto a casa non ancora letti. Stavolta un libro solo, perché “in questo periodo non ho la testa per leggere con calma” e invece LA PAROLA LIBERA di Alessandro Dehò mi ha presa, cullata, bruciata, strizzata, fatta piangere e consolata… me lo sono bevuto in tre mezzi pomeriggi tra scogli e pini, tra una corsa dietro la mia bambina e una nuotata al largo, tra le danze nascoste con lo sposo e le passeggiate in cerca di pace e fiori anche nel casino della settimana di ferragosto in un posto di vacanza (sarebbe bello andare in vacanza in altri momenti, ma non tutti possono scegliere le ferie e ringraziamo di poterle fare comunque le vacanze e in un bellissimo posto, casino agostano a parte). La Parola libera libera. GRAZIE

Il testo ha un ritmo e una melodia, il filo che tiene insieme le note è forse la storia del grande re Davide, da quando era un fanciullo fiero lontano dalle seduzioni del potere fino alla morte che arriva con certezza prima dell’ultimo respiro, rivelata dalla fine della potenza amorosa, una storia affascinante e vera, unica e semplice, attraverso tutte le contraddizioni della vita quando non (ci) si mente, ma forse è più liberante seguire, non le vicende della biografia corrotta e non corretta, quindi bellissima e imperfetta, autentica, vera, di quest’uomo straordinario, ma la danza della Parola nella storia e con la carne di Davide, la Parola libera, che è fedele a Davide più di quanto lui sia fedele a Lei, a Dio, agli uomini, re e profeti, seguaci e servitori, amanti e ruoli, a se stesso.

Stare in silenzio e svuotarsi, così da fare spazio alla Parola. E lasciarla cantare e farsi trascinare nella danza del suo fuoco e della nostra smarrita, vergognosa, bellissima debolezza. Affamati di senso, bisognosi di infinito

Regali dal Re

In Santa Croce per pochi minuti, oggi pomeriggio, qualche foto al volo anche se non ero entrata con i turisti… le guardie della Basilica mi avevano fatta passare, senza far la fila, per accedere alla zona riservata al culto. Ero stata alla messa la mattina a San Jacopino e lì, con alcune amiche, preghiere, in una chiesa parrocchiale, dopo mezzogiorno…si era ‘a posto’, formalmente (poi si vedrà ciascuna per sé quanto distacco in cuore da ogni peccato… che il Re dei re ci aiuti) però ho raccolto il suggerimento di Don Fulvio: andare a pregare anche a Santa Croce, per riaffermare la professione di fede e pregare secondo le intenzioni del Papa visitando allo stesso tempo una chiesa francescana, splendida occasione di rivedere la bellissima basilica francescana di Firenze!

“Ti prego che tutti coloro che, pentiti e confessati, verranno a visitare questa chiesa, ottengano ampio e generoso perdono, con una completa remissione di tutte le colpe”. Fu una richiesta audace quella fatta da San Francesco direttamente al Signore che gli era apparso in una notte del 1216 mentre era immerso nella preghiera nella Porziuncola. Si trovò, raccontano le fonti, improvvisamente circondato da un fascio di luce. Il Signore glielo concesse e Francesco, si recò subito da Papa Onorio III per ottenere l’indulgenza e il 2 agosto 1216, dinanzi una grande folla, alla presenza dei vescovi dell’Umbria promulgò il Grande Perdono. Francesco, in quella giornata di agosto, alle genti riparate all’ombra delle querce disse: “Fratelli, io vi voglio mandare tutti in Paradiso e vi annuncio una grazia che ho ottenuto dalla bocca del Sommo Pontefice”.

Quel lontano giorno d’estate segna così la nascita del tesoro della Porziuncola: l’Indulgenza del Perdono che può essere chiesta per sé o per i propri defunti. Per ottenerla è necessaria la confessione, la partecipazione alla Messa e l’Eucaristia, il rinnovo durante la visita della propria professione di fede recitando il Credo e il Padre Nostro, infine la preghiera secondo le intenzioni del Papa e per il Pontefice. Dalle 12 del primo agosto, fino alle 24 del 2 agosto, l’indulgenza plenaria concessa alla Porziuncola quotidianamente si estende a tutte le chiese parrocchiali sparse nel mondo e anche a tutte le chiese francescane.

Sono uscita più leggera e col cuore e gli occhi colmi di bellezza.

Vento, nuvole e voli…

E pensieri.

Un giorno ho letto una bella spiegazione dell’indulgenza plenaria, in un blog che non ritrovo. Lo teneva una insegnante di religione, di nome Maria Cristina, era molto emozionante. Mi ero salvata negli appunti la sua spiegazione chiara e semplice:
“C’era una volta un ragazzino con un brutto carattere. Suo padre gli diede un sacchetto di chiodi e gli disse di piantarne uno nello steccato del giardino ogni volta che avesse perso la pazienza e litigato con qualcuno. Il primo giorno il ragazzo piantò 37 chiodi nello steccato.
In seguito il numero di chiodi piantati nello steccato diminuì gradualmente. Aveva scoperto che era più facile controllarsi che piantare quei chiodi. Finalmente arrivò il giorno in cui il ragazzo riuscì a controllarsi completamente. Lo raccontò al padre e questi gli propose di togliere un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non avesse perso la pazienza. I giorni passarono e finalmente il ragazzo fu in grado di dire al padre che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato.
Il padre prese suo figlio per la mano e lo portò davanti allo steccato. Gli disse: “Ti sei comportato bene, figlio mio, ma guarda quanti buchi ci sono nello steccato. Lo steccato non sarà più quello di prima. Quando litighi con qualcuno e gli dici qualcosa di brutto, gli lasci una ferita come queste. Puoi piantare un coltello in un uomo e poi estrarlo. Non avrà importanza quante volte ti scuserai, la ferita rimarrà ancora lì. Una ferita verbale fa male quanto una fisica”.


Ogni chiodo piantato nello steccato rappresenta un peccato che abbiamo commesso e se togliamo questi chiodi (con il pentimento, con il sacramento della riconciliazione, con la conversione…) possiamo vedere i buchi che essi lasciano nel legno e che rimarranno per sempre. Ecco: l’indulgenza cancella quel “per sempre” che abbiamo appena scritto e lo trasforma in “fino a che non ci mette le mani Dio in persona”.
Nel sacramento della riconciliazione si riceve il perdono di Dio, certo; ma intorno a noi non si cancellano le ferite (i buchi) che abbiamo lasciato. Come possiamo sanare quelle ferite?
Come possiamo cancellare quei buchi, rimasti nel legno? Con l’indulgenza plenaria Dio stesso interviene, cancellando perfino i segni di stucco usato per coprire i buchi lasciati dai chiodi. Scompare ogni conseguenza del male che abbiamo fatto intorno a noi e la realtà intera viene guarita da Dio.
Per utilizzare dei termini un po’ più teologici, si dice che nella confessione viene cancellata solo la colpa (cioè il peccato che abbiamo fatto) ma con l’indulgenza viene annullata anche la pena (cioè la penitenza che dovremmo affrontare per le brutte conseguenze che abbiamo provocato in noi e negli altri).
La penitenza rimette in moto la giustizia, cioè toglie i chiodi dallo steccato e mette lo stucco al posto del buco. Rimedia al danno fatto.
L’indulgenza plenaria è aggiustare il legno, ricreandolo con la potenza di Dio. Lo steccato ritorna integro e neanche lo stucco si vede più.
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al n.1471 si spiega molto bene questo regalo di Dio: “L’Indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, dispensa ed applica autoritativamente il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei Santi”.
È un regalo che riceviamo, allungando la mano nel tesoro di Dio! Un tesoro le cui monete d’oro sono state messe lì da Gesù stesso e dai santi che, man mano, hanno offerto tutto di loro per la nostra salvezza. Sono quelle monete (pagate spesso col sangue, con la vita e con l’amore per i peccatori) che hanno riempito il baule di Dio di grazie che ci guariscono.
E Dio le dona a chi:
• Chiede perdono
• È pentito di quel che ha fatto
• È disposto a rimediare


Perché fa tutto questo? Perché ci vuole felici.

Potere forte

Roberta Covelli, laureata in Giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci, propone, nel suo saggio sull’attualità della nonviolenza, anche attraverso storie, episodi, personaggi del passato recente (oltre a Danilo Dolci, Gandhi, Nelson Mandela, Martin Luther King, Pietro Pinna, Aldo Capitini, Don Lorenzo Milani, Gigi Ontanetti), una vera guarigione dell’immaginario e delle parole come parte della ri-evoluzione ancora necessaria e speriamo possibile. La forza non è violenza, per esempio, eppure nel comune immaginario è difficile non connotare negativamente le parole (e le idee) che si riferiscono alla forza e al potere. Si parla di “forze armate” e s’intende l’organizzazione di mezzi di distruzione, armi e uomini in armi, non si ragiona di forze come capacità oppure si parla dei soprusi dei forti sui più deboli, senza considerare che la forza della nonviolenza è molto più forte della violenza. La forza è, prima di tutto, capacità, tratto della vita, non della violazione della vita. La forza non tesa alla distruzione difende anche la vita dell’avversario e l’educazione nonviolenta insegna a vedere nei nemici esseri umani dove la guerra, invece, si prepara insegnando a vedere nemici negli altri esseri umani. Potere forte è la capacità di pensare, affrontare, gestire i conflitti con modalità e mezzi nonviolenti, mentre la violenza è debolezza, fallimento, rassegnazione alla sconfitta della vita. In ogni conflitto violento è la vita che perde, nessuno vince davvero.

Le forze della vita, le armi dell’essere vivente più debole al mondo se isolato – l’uomo – sono nonviolente: la comunione, la parola, il dialogo, l’intelligenza, la comunicazione e la creatività, la condivisione di bisogni e idee per la soluzione dei problemi… vere forze, vero potere.

Mi sono emozionata alla citazione di Gigi Ontanetti, per la sua idea di lanciare mongolfiere di carta con messaggi di solidarietà dai civili bosniaci ai civili serbi, opera di fraternizzazione durante la guerra dei Balcani, per l’opera di vera intercessione (cammino in mezzo al conflitto per costruire la pace, la PACE SUBITO “Mir sada”) tra ponti simbolici e ponti reali. Prima che per l’Operazione Colomba raccontata da Roberta Covelli, Pierluigi Ontanetti mi era stato ‘presentato’ da don Fulvio Capitani che ne ha proposta una canzone nel suo canale YouTube: Un sorriso vi salverà

Don Lorenzo Milani viene citato più volte e ogni volta un tuffo al cuore. Me l’aspettavo, però. Non mi aspettavo invece il groppo di lacrime tra ciglia e cuore poco dopo l’inizio del capitolo sulla profonda relazione tra educazione e nonviolenza “Lo sviluppo creativo”.

A pagina 126 viene citato Balducci dalla presentazione al testo scritto da lui e dal mio babbo “La pace. Realismo di un’utopia”

Nel capitolo dedicato alla fine dell’Apartheid in Sudafrica “Reagire alla violenza, raccontare la verità, riparare i danni”, più che l’efficacia del boicottaggio internazionale, della ricerca di consenso con costanza, persuasione, resistenza nonviolenta, mi ha colpita la riflessione sulla giustizia riparativa e non retributiva, a proposito della ‘Commissione per la verità e la riconciliazione’, dove “la dignità sembrò aver la meglio sulla rabbia, la volontà di capire sul desiderio di vendetta” e soprattutto dove non ci si concentra sulla punizione del reo, ma sulla riparazione del danno e sulla rigenerazione dei rapporti, senza pretendere l’assurdo, non si può istituzionalizzare il perdono, il perdono resta una scelta intima della vittima, un dono capace di scardinare il circuito della violenza, ma come dono, gratuito, non può essere preteso. “La vittima non ha il dovere di perdonare, ha piuttosto il diritto di vedere riconosciuta la verità, di ottenere tutela, riparazione, ristoro, comprensione” mentre è l’autorità che ha il dovere di ricostruire i fatti e i rapporti.

Tra lo ‘sciopero alla rovescia’ di Danilo Dolci in Sicilia e le riflessioni sulla maieutica reciproca e l’ideale capitiniano dell’omnicrazia che scongiuri i rischi di oclocrazia dispotica con un’educazione continua, il saggio di Roberta Covelli aiuta a riconoscere la vitalità di una teoria che è anche e soprattutto pratica, di un metodo spirituale che si avvale di educazione emotiva e manuale. In sintesi, l’attualità della nonviolenza, che si propone “aperta e creativa verso una realtà liberata, in cui la partecipazione è fine e mezzo, la comunicazione è veicolo e contenuto, e la politica raggiunge gli obiettivi già nel condividerne l’elaborazione (…). Dall’autoritarismo all’omnicrazia, dal dominio al potere, così che il potere non rimanga più solo un sostantivo, ma un verbo che costruisce nel percorso il potenziale immaginato: il potere è di tutti, perché tutti possano

LETTERE di Alessandro Dehò

Arrivate alla fine di dicembre, prima del congedo dal 2020 che tanto ci ha scavati un po’ tutti e rimescolati, le travolgenti LETTERE di Dehò mi avevano subito coinvolta. Troppo. Mi sono fermata qualche giorno a spazzare via un po’ di polvere, senza pretesa di rimuovere macerie su cui altri (o l’Altro) potrà forse ricostruir(mi).

Conosco la tentazione di ritirarsi in silenzio, rifiutare inviti a scrivere e “rovistare tra ferite che ancora bruciano”, ma riconosco ancor più “l’urgenza della scrittura, questo demone salvifico, questo bisogno irrinunciabile…”. Resa magnifica. “…scrivere, in fondo, è arrendersi”.

In accompagnamento alle parole scritte, le parole cantate intrecciate con le note: ogni testo è seguito da una canzone, musiche come un respiro e spazi che “non sono un contorno”, anche canzoni note in altre versioni, come Todo cambia di Mercedes Sosa o Sidun di Fabrizio De André e La Sposa indimenticabile nell’interpretazione di Giuni Russo, ma tutte, qui, proposte nella versione cantata da Ginevra Di Marco, mia concittadina sensibile e raffinata che mi è toccato imparare a conoscere meglio e amare grazie a un tizio dalla discutibile fede calcistica (l’unico link che non ho seguito è quello alla traiettoria di un certo pallone…il mio cuore viola mi frena! Nemici nel calcio, anche se sento Alessandro Dehò profondamente fratello). Qui ripropongo la prima canzone reinterpretata da Ginevra: Tutto cambia.

Le parole alla nipotina che Alessandro scrive, da zio, dopo la morte del padre Franco: “io non voglio che tu dimentichi il nonno… troppo importante, è importante per te. E forse anche per me, che figli non ne ho… ho tanta paura dello spreco dell’amore” riaprono ferite e riaccendono speranza e voglia di far vivere ancora un altro nonno, il mio babbo, che a mia figlia e sua nipote manca come manca a me, anche se lei lo ha conosciuto per pochi anni e non quando era un vulcano di energie, amore, idee, slanci, generosità e impegno. Dovrò parlare a Viola del suo grande fragile indimenticabile nonno.
E la farfalla… per me, la farfalla è un segno preciso. Quando vedo volarmi vicino un paio di ali bianche so che babbo mi è accanto.

Chi conosce una storia un po’ taciuta capirà perché questa pagina:

mi ha fatta piangere. Anche se mio padre l’amore vicino l’ha vissuto e moltiplicato.

Per stasera mi fermo qui, forse. Forse riprendo più tardi e intanto pubblico… tanto non sto scrivendo un articolo di giornale, questo è solo il mio piccolo blog personale, terapia selvaggia alla sete di senso che nulla di finito mai colmerà

Letture in corso

In ebraico occhio si dice ‘ajin,
termine che significa anche sorgente.
Se apri gli occhi si aprono sorgenti,
negli altri e in te.
Uno sguardo giudicante
paralizza e separa,
mentre uno sguardo non giudicante,
ma includente,
disseppellisce sorgenti negli altri,
spighe, luce, talenti, futuro.

(Ermes Ronchi)

Arginare il caos è una scelta. Se inizio dieci libri insieme, in un periodo di pensieri non lievi e di smarrimento per tutti, rischio di non gustarne a fondo uno che sia uno. E allora, visto che oggi sono arrivati i libri nuovi, ordinati per amicizia, fiducia e stima nei confronti di chi li ha scritti, oggi mi sono congedata da uno dei tanti avviati e mai finiti: “Lo sguardo dell’altro. Per un’etica della cura e della compassione” di Simone Olianti e Alfredo Jacopozzi che dichiaravano nell’introduzione:

Non si può vivere pienamente senza relazioni umane nutrienti.
Scriviamo questo libro per riaffermare e condividere il valore delle relazioni umane, della cura dell’altro, dei comportamenti gratuiti di generosità e di dono, della bellezza e dell’importanza di sviluppare la compassione per l’altro

Nella prefazione, il cardinale Gualtiero Bassetti scriveva:

“Angosce, preoccupazioni, rabbia, dolore, frustrazioni, paure, disorientamento stanno segnando il quotidiano di molti. Come pure il peso di gestire molte domande senza risposta. C’è, inoltre, la tenuta economica del nostro paese da tenere presente. Più l’emergenza durerà, più è probabile che dovremmo confrontarci con una crisi davvero drammatica. Quale prospettiva abbiamo di fronte a tutto ciò? (…) Dobbiamo ritrovare la concretezza delle piccole cose, delle piccole attenzioni da avere verso chi ci sta vicino, famigliari, amici. Capire che nelle piccole cose c’è il nostro tesoro”

Mi unisco alla preghiera per chi scriveva ancora “quanta più passione si nutre nel prendersi cura dell’uomo, tanto più è possibile trovarsi sulla strada di Dio” e per tutti i malati e per chi se ne prende cura.

Prima di chiudere il libro che mi ha accompagnata in mezzo al caos, salvo qualche frase e condivido pochi passaggi qui. Dalla prima parte, testi di Simone Olianti, almeno il brano per me più liberante:

“L’uomo non obbedisce a logiche deterministiche e rigidamente predeterminate.
L’uomo è di più. È più dei suoi condizionamenti, è più delle sue ferite, è più di quello che i suoi geni e le sue esperienze pregresse lo porterebbero ad essere. L’uomo non è una formula matematica. L’uomo è soprattutto quello che sceglie di essere. Ed essere egoisti sempre e comunque non è una condanna a priori della natura”

Mentre dalla parte dedicata al paradigma del dono, a cura di Alfredo Jacopozzi, mi salvo l’inno all’improduttività (mia profonda convinzione che solo l’inutile sia indispensabile per vivere e non meramente sopravvivere):

E l’etimologia di comunità, cum-munus con quel che segue per le dinamiche della gratuità e reciprocità.

Grazie!