Renzo Cassigoli

« È incredibile ch’io ti cerchi in questo
o in altro luogo della terra dove
è molto se possiamo conoscerci.
Ma è ancora un’età, la mia,
che s’aspetta dagli altri
quello che è in noi
oppure non esiste.»

da Aprile-amore, in Primizie del deserto
Mario Luzi

1914-2005, la vita d’un poeta che amò Eliot e De André

di Renzo Cassigoli su L’Unità

Ora siamo davvero più soli, Mario Luzi ci ha lasciato. Si è spenta un’altra grande voce che ha segnato, poeticamente e umanamente il Novecento. Una di quelle voci che, con Montale, Bilenchi, Vittorini, Bo, Traverso, Contini, Macrì, Gadda, Bigongiari, attraverso la stagione dell’Ermetismo degli anni Trenta in quell’Italia fascista asfittica e volgare, fecero di Firenze un punto di riferimento della più alta cultura europea. Il tempo irripetibile delle Giubbe Rosse e delle grandi riviste letterarie.
La poesia di Luzi si è intrecciata con la filosofia, con la musica (straordinaria la sua lettera a Fabrizio De André e la collaborazione con Luciano Sampaoli) e con la pittura, basta pensare al testo teatrale sul Pontormo o al bellissimo Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. Profondo conoscitore della letteratura francese (si era laureato nel 1936 con una tesi su François Mauriac), aveva tradotto i grandi poeti e letterati, da Rimbaud a Verlaine. Appena due mesi fa il Presidente Ciampi lo aveva nominato senatore a vita e subito Luzi aveva assunto posizioni fermissime sulla vicenda politica italiana e per questo è stato oggetto degli insultanti attacchi della destra, in particolare ex fascista. La sua risposta fu esemplare: “Come cittadino mi interessa dire puntualmente la mia opinione e non mancherò di farlo”. Aveva a cuore il futuro della Costituzione ed era preoccupato per i tentativi di “svenderla”, come lui diceva. “Non è un patto qualsiasi, è una pagina fondamentale di questo Paese, della storia italiana lunga quasi un millennio, tanto tempo è occorso per realizzare l’unità nazionale, per diventare popolo, avere un’unica lingua. Da Dante al Petrarca, al Machiavelli e il suo Principe, su fino all’Ottocento, con i fermenti che venivano dall’Europa ed avevano il loro peso, attraverso due guerre feroci e 20 anni di fascismo e poi la Resistenza, siamo arrivati alla Repubblica e al riscatto del nostro Paese. Ecco, la nostra Costituzione è il risultato di questo percorso, delle lotte e delle sofferenze di un intero popolo. Può essere adeguata, ma non svenduta, come sembra si voglia fare”.
Per Luzi l’Italia era un sogno, un’illusione, un oggetto del desiderio. “La sua forza o la sua debolezza, in fondo – diceva – è quella di essere un’ipotesi un disegno sognato per più di un millennio da grandi intellettuali e che prima di diventare realtà ha subito colpi tremendi. A quest’idea d’Italia adulterata e inquinata dal fascismo si è sostituita l’attuale biologia vitalistica. È un periodo di crisi del sogno e delle stesse risorse biologiche. Nel pentolone di questa stagione negativa sta cuocendo tutto quello che ha alimentato l’idea e la realtà d’Italia. Non sappiamo cosa verrà fuori da questo crogiuolo”.
Mario Luzi era nato a Castello, allora frazione di Sesto Fiorentino, il 20 ottobre del 1914, da Ciro Luzi, impiegato ferroviario e Margherita Papini. Per anni aveva insegnato nei licei e poi all’Università di Firenze. Ai tempi dell’insegnamento al Leonardo da Vinci era stato collega di Eugenio Garin, un altro grande protagonista del Novecento italiano ed europeo da poco scomparso. Ho incontrato Mario Luzi l’ultima volta in Palazzo Vecchio due domeniche fa, alla cerimonia in ricordo di Garin, a cui aveva recato una affettuosa testimonianza. Mentre uscivamo, a cerimonia conclusa, quasi con rammarico mormorò: “Mi sono accorto di non aver mai parlato di poesia con Garin”, poi aggiunse. “Chissà forse potremmo parlare del rapporto fra poesia e filosofia”. Dovevamo incontrarci ieri pomeriggio a casa sua, in quell’attico appollaiato a Bellariva sulle sponde dell’Arno, dove tante volte siano stati seduti a parlare l’uno di fronte all’altro, sotto quel grande ficus che ormai tocca il soffitto.   Chi era Mario Luzi? Un protagonista della cultura europea, un testimone attento e acuto delle vicende che hanno attraversato il Novecento, un poeta che con i versi coltivava anche un profondo e sincero impegno civile. Esemplare la sua definizione della poesia: “Quale sia lo stato delle cose, la condizione della salute umana, spirituale e culturale, l’ha detto la poesia. Eliot, Valéry, Montale, Rebora hanno dato senso alla condizione dell’uomo. Penso a Rilke, a Celan, a Machado. Con difficoltà nel magma del secolo, quel che poteva la poesia l’ha fatto. Ha perseguito il sogno, continuamente deluso e continuamente ripreso, di un mondo meno ingiusto e perverso. Un mondo che, magari, potesse farci sperare in un uomo che si appartenga e non sia alieno a se stesso, quale invece rischierebbe di essere se la poesia cadesse in disgrazia. Chiediamoci allora, non cosa ha fatto la poesia, ma cosa sarebbe il mondo senza di essa”.
La Poesia e la Parola. “La parola è tutto: è il Verbo – affermava centellinando le parole quasi a misurarne interamente il senso -. È il segno primario del divino nell’uomo. Che uno sia credente o non lo sia, la parola ha qualcosa di sacro, anche per chi rifugge da questi pensieri trascendenti. Per questo la storia della poesia è storia della parola”. E del silenzio. Impensabile l’una senza l’altro. “Perché anche il silenzio parla: Cristo nei Vangeli talvolta tace, ma la sua parola è anche quella. Attraverso la parola e il silenzio ci interroghiamo sulla presenza del Bene e del Male, il grande scandalo dell’Universo”.   Memorabile l’incontro con Sergio Givone sulla Parola e il Silenzio. E quello fu anche l’incontro fra la Poesia e la Filosofia. “Mi piccavo d’essere orientato verso la filosofia”, disse il poeta, “però quando mi volevo esprimere o volevo versare qualcosa di me, cercavo qualche confidenza nei versi”.
In realtà nella poesia di Luzi c’è costante, a volte sotteso, l’intreccio fra due stati del pensiero umano: la filosofia che è ricerca del razionale e la poesia che è il volo dell’anima.
Luzi era un poeta cristiano. Aggiungeva puntigliosamente: “Quello che è rimasto e che conta per me, è il fondamento evangelico ed è tutta la cultura e la vita spirituale che intorno a quel fondamento è fiorita. È un grande aspetto dell’umano. La chiesa, per me, ha avuto il grande merito di trasmetterci i Vangeli. Per il resto la considero un’organizzazione umana e gli errori e i pregiudizi secolari sono parte integrante di un magistero che proviene dalla Fonte, ma anche dal tempo”. Esemplare, in questo contesto il commento di Mario Luzi alla Via Crucis dell’ultima Pasqua prima del 2000: «Ho voluto vedere l’Incarnazione dall’altra parte, Cristo dalla parte dell’uomo”.
Un interrogativo ha sempre dominato la ricerca poetica e civile di Mario Luzi: l’uomo sarà contro se stesso o saprà riconoscere e combattere i nemici di sempre, la fame, la miseria, l’ignoranza, l’odio, la guerra? Attraverso le città che ha amato: Siena, Firenze, Pienza (il “luogo incontrato”) ci ha mostrato ciò che l’uomo è stato capace di costruire, pensando alla guerra ci ha detto ciò che è capace di distruggere. Il poeta lascia la questione aperta: “Dipenderà dall’uomo. Se riconoscerà d’essere impegnato in questa controversia, forse potrà aprirsi una nuova stagione dell’umanità e l’uomo sarà più libero”. Mario Luzi ci lascia una grande lezione: ha vissuto libero, lavorando e progettando fino all’ultimo istante della sua stupenda esistenza. Una volta mi ha detto: “Sono un uomo che ha fatto una lunga strada senza sapere dove questa portasse. Ho lavorato, ho scritto, mi sono sentito spinto a scrivere per conquistare nuovi approdi di spazio e di conoscenza. Ma chi sono lo potrò capire in extremis. Forse”. Grazie, Mario Luzi per avere potuto condividere il tuo amore per la poesia, per l’uomo e per la vita.

Oggi, 23 Aprile 2012 anche Renzo Cassigoli si è spento. L’ultima volta che babbo andò a trovarlo aveva un coniglio in giro per casa… come in questa foto trovata in rete.

Non lo rammento con precisione, erano diversi anni che non lo vedevo di persona, ma mi resta il ricordo di un uomo buono, gentile, raro.
Grazie, Renzo… per tutto

i fiori del mio nido

Mi piacciono tanto le rose, rosa, bianche, rosse e gialle, adoro l’iris, i papaveri, il girasole, mi commuovono glicine e mughetto, poi c’è un fiore che amo fino alle lacrime e che nessuno potrà regalarmi se non in foto, perché certi fiori meravigliosi e rari sono da guardare, disegnare, ammirare, fotografare, dipingere, ma non cogliere, non toccare.

L’isola d’Elba è da una vita il mio nido preferito, tra fiori e scogli, onde e stelle, curve, picchi, rami, luci e colori cari …  

dove da bambina vivevo lunghe vacanze incantate con babbo, mamma e il primo fratellino (il secondo, Paolo, è nato quando già la stagione magica dell’estate all’Elba era tramontata. Dopo, anni di buio).

Solo nel 2006, con Sandro, ci sono tornata per la prima volta dopo vent’anni dall’ultima avventura con Pietro (il primo fratellino) che tremava ogni volta che mi tuffavo dalla scogliera o scappavo di notte dalla finestra per inseguire le storie affidate alle stelle…

 quante storie ascoltate dai pescatori di Portoferraio, dai marinai e dalle guardie del carcere di Porto Azzurro…
Adesso le ferie durano un soffio, ma il tempo vissuto intensamente vola mentre si vive, si dilata nel ricordo.


Sono stata concepita su quest’isola in una notte di luglio resa più tremante e appassionata da un incendio… così mi hanno raccontato, così mi piace immaginare quel che non posso ricordare.
Per anni, ogni estate, l’Elba è stata il mio paradiso in terra, il grembo di dolci sogni e magiche avventure. Dopo vent’anni di altre storie e disavventure, con Sandro è tornata a far da cornice a una vita viva. Anche se per pochi giorni, solo in agosto.  

La Viola dell’Elba, variante relegata ad alta quota della Viola Corsica, fiorisce in primavera, tra le rocce e i cespugli della ginestra spinosa, in luoghi alti, battuti dal vento, in Corsica, appunto, in Sardegna e all’isola d’Elba sul versante nord del Monte Capanne.

Da qualche tempo altri fiori colorano i miei ricordi elbani, come il Giglio di mare

e un amico appassionato di foto me li ha fatti ricordare con un’insolita immagine a febbraio, dopo la nevicata anche all’Elba

foto di Adriano Locci

dove sbocciano i nivei gigli di mare…
l’oasi del San Pancrazio innevata mi mancava

a casa

Nuvola tra le nuvole. Giorni e notti di pioggia, cielo grigio senza stelle, ma, ogni tanto un tramonto di rose disfatte si porta via un pensiero…
E respiri in volo dalla finestra, in ogni ora o stagione, come quando in una sera scura si apre un cuore di luce riflessa

o un tramonto infiammato a dicembre

e batuffoli pastello in marzo

 che mi chiamano a cercare di fermare attimi colorati così spesso che a volte mi imbroglio e dico “vado a scaricare i panni” o “a stendere le foto”. E capita anche di trovare la Luna tra le nuvole al tramonto in mezzo ai fili dei panni e qualche volta la mano trema al vento e lo sfocamento mette il nasino alla Luna…

e lasciamo perdere che chiami mamma la Luna e sorelle le nuvole… quando mi tapparono mezza terrazza per i lavori al piano di sopra non riuscivo a sopportare il cielo in gabbia

mezzi di trasporto

Tra una settimana il treno per Parigi (e prima un treno da Firenze a Milano, la sosta per cambiare treno – da Milano a Parigi viaggeremo in scompartimento a due – incontrare, forse, due amici e passare, se possibile, a salutare i licenziati dei treni notte al Binario 21), tra una settimana e una notte in treno metterò tra parentesi quel che mi sta stretto qui.
Nostalgia del Métro.

E delle note sparse lungo la Senna, possibilmente sotto una pioggia fine fine, alla fine di una corsa nel quartiere latino, magari senza una girata fortuita a Vanves per un bus preso nella direzione sbagliata. (Era il bus 58, dopo la visita al cimitero di Montparnasse, per tornare un’ultima volta a Notre-Dame, prima di correre alla stazione).

E prima di preparare la valigia con la macchina fotografica per i nuovi ricordi, sfoglio ancora un po’ l’album della prima volta, di un anno e mezzo fa ormai.

Le bici eletttriche tra le foglie colorate d’autunno, tra passi svelti e respiri sottili.

Con gli occhi al cielo, seduti ai piedi della Tour Saint Jacques, per via dei mezzi di trasporto più usati (i nostri piedi) bisognosi di una sosta ogni tanto…
(pure mézzi di pioggia, ogni tanto).

E neanche un’immagine condivisibile – pour cause – di noi mézzi di trasporto. Ma il capolavoro di Canova rende abbastanza bene l’idea…

Diaz

Siamo stati a vedere Diaz (don’t clean up this blood) il film di Daniele Vicari dedicato a quella che Amnesty International ha denunciato come “la più grande violazione dei diritti umani in Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale”, perché a Genova, nei giorni del G8 del 2001, ci fu una vera e propria sospensione dei diritti civili.

irruzione nella scuola

Le mani alzate di manifestanti disarmati, rifugiati nella scuola Diaz di Genova, non fermano un solo manganello. Manganellate, calci in faccia, calci in pancia, stupri mimati, denti spaccati… un sangue che non si lava via.
Un blindato sfonda il cancello della scuola come fosse di cartone.
Trecento caschi blu contro ragazze ventenni, pensionati, cittadini inermi, anarchici sognanti (gli unici che sanno salvarsi, scappando in tempo o trovando rifugio in un bar o in case private – lontano da caserme, scuole, ospedali, cioè lontano da dove un comune cittadino dovrebbe poter cercare aiuto sempre – gli anarchici organizzati).
Trecento uomini al servizio dello Stato si sfogano come bestie. Impuniti. Abusi di ogni tipo, pestaggi gratuiti, sadismo puro, roba da dittatura sudamericana. In Italia, nel 2001.

Sono passati più di dieci anni dalla “macelleria messicana” (come alla fine, soltanto nel 2007, uno dei protagonisti del blitz, il vicequestore aggiunto Michelangelo Fournier, si decise ad ammettere in aula), ma certe ferite non si rimarginano.
Nessuno degli agenti di pubblica sicurezza (!) coinvolto è stato sospeso dal servizio.
I caschi sono ancora senza numero o segno identificativo.
Il reato di tortura non è ancora contemplato dal codice penale.

Tra i sopravvissuti, Alma Koch ha visto il film con gratitudine e uno strano sollievo, come se finalmente un documento potesse raccontare per immagini quel che ha vissuto e che nessuno sembrava credere possibile.

Il film è duro, non inventa, non consola. Non è stato possibile girarlo in Italia, molte scene sono state ricostruite a Bucarest, altre in Francia.
In Italia ora si può vedere al cinema. Mi chiederei perché se non sapessi che quasi certamente lo vedranno solo quanti (come noi) già sapevano e comunque non dimenticano. Negare sarebbe impossibile, visto che c’erano anche ragazzi spagnoli, tedeschi, finlandesi… e allora ce lo fanno vedere, lo passeranno nelle sale per un paio di settimane e poi calerà, come sempre, l’oblio.

Anche se avevo già visto molto e poi letto nei dettagli quel che viene fuori nel film, non sono riuscita a trattenere le lacrime.
Non si dimentica

c’ero una volta

Tra le braccia del babbo

… primo assalto alla libreria del babbo, curiosa sempre

e quindi rinchiusa in gabbia

quando sorridevo senza pensieri.

Con il fratellino sulla nave, golosa di vento

e con le prime perplessità, forse

…però il ricordo preferito degli anni senza quasi ricordi, una foto per anni attaccata in bacheca. Una bacheca vera, di sughero, appesa in cucina, non la bacheca virtuale delle foto digitali. Si vedono anche i buchi delle puntine:

 con Pietro, piccini, quando ero ancora più alta del fratellino
(ora babbo del mio nipotino)

E, tra i ricordi dei nostri anni da fratelli quasi gemelli, con la camera in comune, il poster di Mordillo per Amnesty.

C’è un filo che non si spezza, oltre ogni nodo e groviglio… tra noi e tra quel che si sognava allora e quel che crediamo ancora.
Non si ferma il vento, nessuno è padrone della nuvole

omaggio a Doisneau

« Quello che cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere. »
(Robert Doisneau)

Grazie al doodle di mezzanotte mi sono ricordata uno dei colpevoli del mio amore per Parigi.

Robert Doisneau ((Gentilly, 14 aprile 1912 – Montrouge, 1 aprile 1994)

Merci bien

al “passante paziente” dedico non Les passantes di Brassens  né l’interpretazione di De André, ma Les passants di Zaz… credo gli sarebbe piaciuta ‘sta ragazza

 

un porto

Genova rossa, rosa ventilata
di gerani ti facevi strada
Genova di arenaria e pietra
anima naufragata

 Genova 9 Luglio 2011
E tra le luci all’uscita dal tunnel, tra i respiri via via meno stretti, oggi voglio ricordare la prima volta a Genova, già percorsa e sognata tante volte con De André (Fabrizio e il figlio Cristiano), in una girata di un giorno, dal mattino al tramonto, ai primi di luglio di un anno che non desidero più cancellare.
Nel bene e nel male, quel 2011 che credevo di dover dimenticare, mi ha fatta perdere e ritrovare.
in questo mondo di squali
(in questo mondo di squali)
La scusa (l’occasione) per abbandonare l’afa fiorentina e seguire il vento tra le vie della città vecchia e il sale al porto in compagnia dello sposo e del nostro  amico Nuvolo, una mostra al Museo Luzzati, nel Porto Antico di Genova, dedicata alle opere di Guillermo Mordillo.
Stralunata, ma felice come una bambina, dal porto con le sagome di chitarra decorate…
Cate e Faber
alla ricerca della via del cuore “mi scusi? Per Via del Campo?” (occhiate strane…)
(dai diamanti non nasce niente,
dal letame nascono i fior)
a passi svelti nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi
(ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi
),
per portarci poi stremati a sedere al sole, con le gambe pesanti, i piedi cotti e il cuore alleggerito.
p.s. non c’era solo De André a farmi cara Genova.
La prima Città vecchia che ricordi con amore è nella poesia di Umberto Saba:

Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.

       Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.

 Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore:
s’agita in esse, come in me, il Signore.

       Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via

primi respiri

avevo bisogno di ricominciare a respirare, imparare di nuovo a camminare.
E a piangere.

Volterra

Sono stata mesi senza lacrime, ricordo che già a febbraio – dell’anno scorso – avevo smesso di piangere. Precipitata nel buio alla fine di aprile, con gli occhi asciutti. Era maggio e non piangevo mai. Tristezza trattenuta, sentivo il bisogno di piangere e al posto delle lacrime al massimo mi usciva uno sbadiglio e una secca risatina, una specie di tremito con riso nervoso.
Non uscivo più da sola, non riuscivo a darmi pace o farmi forza, non saprei più dire come mi sentivo. Forse meglio così, meglio dimenticare e andare avanti.
Non voglio, però, scordare gli spiragli, i primi passi all’aria aperta, le mani che mi hanno riportata a casa, tra le nuvole…

Il primo San Giovanni fuori Firenze, un ponte allungato dallo sposo premuroso, un ponte abbassato sopra il fossato, una parentesi di leggerezza, terra cara, acqua, cielo al posto dei fòchi… tre giorni tra Volterra,

San Gimignano

e Siena. Nel caldo di fine giugno, ma lontana dall’afa fiorentina.
Gonfia di medicine, ma con un sorriso vero, preludio del primo pianto liberatorio sgorgato finalmente il mese dopo…

e per la prima volta in visita alla casa santuario della Santa cui devo il nome

Caterina riflessa in Santa Caterina

Amore della zia

7 novembre 2010

al ritorno da Parigi mi aspettava il mio primo nipotino. Dall’enorme al minuscolo, emozioni senza fine.
Già durante l’avventuroso viaggio d’andata, in treno nella notte da Firenze a Parigi, nella cuccetta in alto, separata da Sandro, sopra la testa solo qualche centimetro tra me e il tetto della carrozza rumorosa, sotto il sedere un gruppo di giapponesi russatori forti, un francese salito a Parma e una ragazza londinese pingue e poco silenziosa, allargavo l’esiguo spazio fisico a disposizione con respiri dal cuore inondato di tenerezza per quell’esserino che solo al rientro avrei imparato a conoscere. E difendevo il respiro con salviette profumate, ché tra gli scossoni del vagone nelle zone di montagna e alle fermate, chiusi al buio, l’olfatto acuito avvertiva ogni sfumatura di scarpa ginnica e calzino usato…


La foto del nipotino, nella galleria del cellulare, mi riportava a casa nei rari momenti di disagio e nelle ore di puro incanto, quando mi lasciavo rapire dalla tentazione di non tornare più, deliziata da tutto e soprattutto dagli spazi …
spazio datemi spazio

Il mio fratellino era diventato babbo. A me è toccato far da mamma di cuore al figlio del mio sposo, ma è stata negata la gioia di esser mamma anche di pancia. Non mi ero ancora arresa, soffrivo ancora molto per quella briciola di me, di noi, persa senza neanche un nome… e per quel dolore senza nome, non lutto, ché nessuna persona era mancata … quando interrogavo Écoute.

è tardi? Forse troppo tardi. Perché qualcosa si ribella e grida che invece è presto?
Forse non sarà mai il momento, se sento tanto, se non capisco, se sento tutto, ma non mi ascolto.
Non lo so se lo voglio davvero, quello che non c’è… e se fosse solo un desiderio senza volontà?

E pensavo e ripensavo alla mano accostata all’orecchio dell’enorme testa che pensa e invita all’ascolto, in quella piazza, place René-Cassin, tra le strutture moderne del Forum des Halles e la chiesa de Saint-Eustache. Écoute, la scultura di Henri de Miller non mi usciva di testa. Sì, forse quella testa appoggiata alla mano a sua volta appoggiata al suolo, come gli indiani da film sui sentieri, in ascolto, invita a prestare attenzione ai segnali e alle voci di fuori, alle parole degli altri. O forse, anche almeno, suggerisce un altro ascolto. Quella mano accostata all’orecchio a volte mi sembra una forma di protezione, un appoggio per la testa che scoppia di rumori e parole e voci di fuori. Un tentativo di sentirsi, dentro.

E poi sono uscita di testa. In tutti i sensi, ma in senso buono per lui, il mio nipotino, luce dei giorni di buio.
Tenero tesoro da cullare


Serio serio, con gli stessi occhi di mio fratello da piccino, a meno di tre mesi

Gioia tremante ai primi passi, ottobre scorso

Compagni di giochi con le bolle di sapone

Attore, ormai… sembra pianga, per un dolcetto negato, ma è stato lo spettacolo di Pasqua, tutto sorrisi e versini, gioia di vivere fatta bambino